Paleoclimatologia

La paleoclimatologia è lo studio delle condizioni climatiche verificatesi nei tempi geologici e delle cause dei loro cambiamenti. I climi presumono complesse relazioni fra l'atmosfera e gli oceani (vedi interazione oceano-atmosfera; oceani e mari) e l'atmosfera e i continenti (in particolare i ghiacci continentali) su scale di tempo da migliaia a parecchi milioni di anni. Le variazioni climatiche comprendono sia alterazioni nei valori medi a lungo termine sia oscillazioni del valore medio di grandezze atmosferiche come temperatura (v. paleotemperature), pressione e regime delle precipitazioni. L'ampiezza dell'oscillazione dalla norma che costituisce un cambiamento climatico dipende dalla scala temporale considerata. Alcuni scienziati restringono il termine cambiamento climatico alle variazioni che si manifestano su periodi di decine di migliaia di anni, come gli eventi glaciali e interglaciali quaternari. In questo ordine di terminologia, le variazioni di più lunga durata possono essere definite rivoluzioni climatiche (come avviene per i cicli di orogenesi) e quelle di breve durata fluttuazioni (come i cambiamenti avvenuti durante l'epoca recente e i cicli di macchie solari) e iterazioni (come quelle annuali e i cicli pressoché biennali).

QUADRO D'INSIEME

Considerata nel contesto dei passati 600 milioni di anni della storia della Terra, l'estesa glaciazione del pleistocene è un evento raro (v. ghiacciai e glaciazioni; glaciale, era).

Durante il 95% circa del tempo geologico, la Terra ha avuto temperature mediamente più calde di quelle attuali; i gradienti di temperatura equatore-poli erano più modesti e la circolazione meno intensa. L'era paleozoica, fredda e glaciale al suo inizio, divenne via via più calda fino al siluriano e al devoniano, quindi subì un raffreddamento fino alla glaciazione permo-carbonifera (v. carbonifero; permiano). L'era mesozoica fu generalmente calda e uniforme, ma in modo più moderato durante l'inizio del cenozoico. Il terziario inferiore registrò un marcato raffreddamento, stimato di 5-10 °C o più sul valore medio, indice della glaciazione quaternaria. All'interno del quaternario si riconoscono almeno quattro cicli principali glaciali e interglaciali con diverse fluttuazioni minori.

Nell'olocene si possono riconoscere delle variazioni, ma il loro numero e la loro natura è ancora oggetto di discussione. Alcuni scienziati hanno proposto una triplice suddivisione del periodo in: anatermico, un intervallo in fase di riscaldamento che segue direttamente il pleistocene; altitermico, risalente a 7000-5000 anni fa, decisamente più caldo di oggi, e secco; meditermico, molto simile al presente.
Altri hanno proposto una sequenza più complessa di episodi che coinvolgono variazioni su scala più regionale che globale.

Da prove raccolte riguardanti gli ultimi 1000 anni si possono desumere variazioni ancora più sottili. Un periodo relativamente caldo - il piccolo optimum climatico - posto fra il 900 e il 1150 d.C. fu seguito prima da circa 250 anni di raffreddamento alle medie latitudini e poi da un secolo più caldo. Fra il 1550 e il 1850 si verificò un generale e progressivo raffreddamento (durante la piccola era glaciale o Nuovo Borea). I dati raccolti durante l'epoca delle registrazioni strumentali suggeriscono per l'emisfero settentrionale un riscaldamento dal 1880 al 1940 circa, quindi un raffreddamento.

EVIDENZE CLIMATICHE E LORO INTERPRETAZIONI

La natura delle prove è tale che più si guarda nel passato, meno informazioni si ottengono. La documentazione geologica consiste di dati incompleti accumulati e integrati in lunghi periodi di tempo. Le interpretazioni, perciò, tendono a essere qualitative e a bassa risoluzione, talvolta addirittura ambigue. Più ci si avvicina al presente, più sono evidenziabili prove effimere ancora esistenti (cioè su scale di tempo brevi), ed è così possibile trovare informazioni più dettagliate. Così, mentre una glaciazione dell'inizio del paleozoico può essere difficilmente identificata e la sua durata stimata in modo approssimativo, eventi glaciali interglaciali cenozoici possono essere riconosciuti chiaramente e può esser spiegato il carattere delle loro fluttuazioni. L'incremento apparente di variabilità che si incontra via via che ci si avvicina all'epoca presente è il risultato della conservazione di dati ad alta risoluzione. Le ere e i periodi geologici passati furono probabilmente soggetti a climi variabili per tutta la loro durata.

Prove sperimentali di climi freddi

Molti tipi di prove di glaciazioni tendono a essere transitori su scala di tempo geologica. I paesaggi alpini possono scomparire in un centinaio di milioni di anni circa a causa dei cicli erosivi. Campi di drumlin, esker e morene possono benissimo essere completamente erosi. Prove periglaciali di climi freddi, come terreni modellati, permafrost e depositi di soliflussione possono essere di durata ancora minore. Solo depositi incorporati in reperti stratigrafici possono mantenersi attraverso il tempo geologico come prove di climi freddi. Il più comune di questi depositi sono le tilliti, detriti glaciali sitificati come una morena di fondo. Il riconoscimento di un deposito come tillite non è senza ambiguità, ma l'associazione con letti rocciosi striati o massi erratici trasportati dal ghiaccio può rendere certa l'identificazione.

Prove sperimentali di climi caldi

Numerosi depositi sono stati interpretati come indicatori di paleoclimi caldi, ma non tutti lo sono in modo inequivocabile. I depositi di carbone sono stati considerati testimonianze della presenza di foreste caldo-umide, come le moderne paludi di mangrovie tropicali. Tuttavia, le estese torbiere delle medie latitudini e i depositi subbituminosi suggeriscono che gli strati di carbone possano essere interpretati come indicatori di clima umido, costante, forse caldo, ma non necessariamente tropicale. I principali depositi di carbone del mondo risalgono al tardo paleozoico, durante il quale si verificarono anche estese glaciazioni.

Gli strati di carbone sono spesso seguiti nelle colonne stratigrafiche dei red beds permo-triassici. Sono state avanzate circa una dozzina di teorie per spiegare l'origine e il significato ambientale delle arenarie e siltiti rosse. I red beds sono stati considerati i rappresentanti di condizioni climatiche variabili da quelle di deserti molto caldi e aridi a quelle di delta caldo umidi. L'opinione prevalente considera che i pigmenti rossi ematitivi si siano sviluppati in suoli collinari e in climi caldi e umidi con distribuzione stagionale delle piogge, qualcosa di analogo al processo che conduce oggi alla formazione di lateriti. La deposizione come sedimenti detritici è avvenuta in ambienti ossidanti, nei quali si è conservata la colorazione del suolo. La relazione stratigrafica con gli strati di carbone suggerisce che dev'essere avvenuto un cambiamento da un ambiente riducente a uno ossidante quando la palude si è prosciugata.

Le rocce carbonatiche derivate da scogliere coralline indicano la passata presenza di mari caldi tropicali. Benché lo spostamento nella posizione dei depositi corallini nel tempo possa essere meglio spiegato in termini di deriva dei continenti, le variazioni nell'ampiezza delle singole cinture coralline possono indicare cambiamenti nella temperatura dell'acqua che le circondava.

Prove sperimentali di aridità

Le sequenze di evaporiti sono certamente indicatrici di climi aridi, nei quali l'evaporazione supera le precipitazioni. Le acque salmastre lacustri tendono ad avere variabilità troppo alta nelle proprietà fisiche e chimiche per permettere interpretazioni più che qualitative sui loro depositi. Le evaporiti marine, tuttavia, possono servire come paleotermometri, basati su studi geochimici sulla frequenza e sull'intensità di precipitazione dei vari sali in funzione della temperatura. Sequenze di evaporiti spesse e variamente distribuite, che indicano situazioni calde e aride, si sono deposte nel cambriano superiore, nel siluriano inferiore, nel devoniano medio e inferiore, nel permiano, nel triassico inferiore, nel cretaceo superiore e nel terziario medio. Le arenarie eoliche, quando di sicura identificazione, sono prova sicura di condizioni aride. L'analisi delle strutture con stratificazione incrociata può mettere in evidenza la direzione dei paleoventi.

Uso dei fossili

L'uso dei fossili vegetali e animali per la determinazione dei paleoclimi impone l'adozione della teoria detta dell'attualismo. Dati i fenomeni dell'evoluzione e dell'estinzione, tuttavia, spesso insorgono situazioni di "non analogia" in cui non esiste nessun sostituto che suggerisca relazioni ambientali per un dato fossile. Per esempio, i grandi rettili ectodermici vengono spesso citati come prova dell'evidenza di temperature elevate durante il mesozoico (la recente teoria sui dinosauri a sangue caldo, tuttavia, può modificare questa interpretazione). Quando esiste una generica continuità con il presente, come nel caso del terziario, le interpretazioni sono più sicure.

Per tempi vicini al presente parecchie tecniche di alta risoluzione quantitativa permettono di interpretare i paleoclimi. La stima di una varietà di parametri paleoclimatici viene raggiunta tramite funzioni statistiche a più variabili, dove le relazioni fra l'associazione di flora e fauna moderne e i loro ambienti vengono usate per interpretare le associazioni fossili. La tecnica si è dimostrata valida negli studi dei foraminifera oceanici e dei pollini terrestri (v. palinologia) e dà una risoluzione variabile da alcuni anni fino a un centinaio per un periodo che va da alcune centinaia ad alcune migliaia di anni fa. Per esempio, il cambiamento di vegetazione e rivegetazione nell'America Settentrionale può essere seguito studiando i pollini: da ciò possono essere valutati i cambiamenti climatici. Tecniche analoghe permettono anche l'analisi delle serie di anelli degli alberi (v. dendrocronologia). Una ricostruzione anno per anno che copre quasi tutta l'era recente esiste adesso per il Pinus aristata delle White Mountain in California. Fra i parametri stimati, in aggiunta alla temperatura e alle precipitazioni, vi sono gli indici di siccità e zone di pressione.

Chimica isotopica

Il frazionamento che avviene negli oceani di isotopi pesanti e leggeri dell'ossigeno nell'acqua, nel biossido di carbonio e nel carbonato di calcio, dipende dalla temperatura e dalla salinità. Misure dei rapporti isotopici in test carbonatici sui foraminiferi fossili permettono una valutazione della temperatura del mare e del volume degli oceani, ambedue corrispondenti a variazioni del volume delle coperture glaciali e dei ghiacciai. I rapporti isotopici del ghiaccio danno un quadro della temperatura media dell'aria. Oggi si ha una documentazione continua comprendente quasi tutto il quaternario.

Dati storici

I pochi secoli del periodo storico forniscono una grande ricchezza di dati qualitativi e quantitativi. Per le epoche anteriori a quella delle registrazioni strumentali dei parametri meteorologici, gli indici di clima severo o temperato sono stati desunti da documentazioni sociali, come diari privati, pagamenti di tasse e tributi, registrazione dei raccolti, date delle feste per la fioritura dei ciliegi, annotazioni di viaggiatori e date di congelamento e scioglimento dei fiumi e laghi. Quando questi dati qualitativi sono suffragati da dati quantitativi allora si possono trarre alcune valide considerazioni.

Benché i primi strumenti meteorologici siano stati inventati nel sec. XVII, solo nella seconda metà del sec. XIX furono stabilite reti di stazioni. Le registrazioni meteorologiche forniscono dati a risoluzione decisamente alta, ma solo per brevi periodi di tempo. Il dettaglio non è sempre estrapolabile a scale di tempo più lunghe e a tempi geologici anteriori a causa delle generalizzazioni che si rendono necessarie.

MECCANISMI DELLE VARIAZIONI CLIMATICHE

Per spiegare le variazioni climatiche sono stati proposti vari meccanismi. La teoria della deriva dei continenti ha risolto molti problemi prima insolubili: per esempio, un principio importante della paleoclimatologia è che i poli non siano mai stati zone calde. La deriva dei continenti può spiegare l'esistenza dei depositi di carbone nell'Antartide, che sono coevi delle glaciazioni di territori ora situati vicino all'equatore, senza far ricorso a improbabili ricostruzioni climatiche.

Parecchie teorie sulle variazioni climatiche ambiscono a spiegare il fenomeno della glaciazione. Le più promettenti sembrano essere quelle dell'orogenesi e delle masse continentali in posizione polare (v. paleogeografia). Le montagne hanno un'influenza perturbatrice sulla circolazione atmosferica delle medie latitudini e sono associate nei tempi geologici a gradienti di temperatura crescenti. I continenti posti attorno o nelle vicinanze dei poli possono isolare i poli stessi dal flusso di calore proveniente dalle regioni circostanti e possono convogliare neve e ghiaccio in quantità sufficiente a formare ghiacciai. Variazioni di lungo periodo nei parametri dell'orbita terrestre (eccentricità, obliquità e precessioni) possono alterare i valori stagionali dell'insolazione e fare da battistrada agli eventi glaciali ove vi siano le condizioni geografiche.

Un rapporto su possibili alterazioni umane del clima emerge da considerazioni sulla trasparenza dell'atmosfera. L'aggiunta di biossido di carbonio, prodotto nella combustione, può aumentare la quantità di radiazione terrestre intrappolata nell'atmosfera, esaltando così l'effetto serra.

D'altra parte però, l'aggiunta all'atmosfera di particelle solide prodotte nell'agricoltura e nell'industria può aumentare la quantità di radiazione solare retroriflessa nello spazio, producendo così un effetto di raffreddamento. Le analisi dei dati meteorologici recenti suffragano ambedue le teorie. L'evidenza che ne emerge non è conclusiva e non si possono predire con sicurezza le linee di tendenza, ma la sensibilità dei meccanismi implicati, così come la grande suscettibilità dell'umanità a variazioni climatiche di minore entità, ci spinge a considerazioni molto caute.

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Questa pagina è stata realizzata da Vittorio Villasmunta

Ultimo aggiornamento: 29/11/14